La Crisi dell’impero Ottomano


Il declino del potere ottomano fu dovuto al saldarsi, a partire dal XVII secolo, di vari elementi di crisi: l’incapacità di evoluzione scientifica e tecnologica, l’invadenza del clero e dei giannizzeri sul governo, la diffusa corruzione, la precarietà dei ruoli dello strato nobiliare, il peso fattosi via via più insopportabile di un apparato militare enorme e non sorretto da sufficienti forze produttive.
Il tentativo compiuto da Osman II (1618-22) di riorganizzare il potere portò al suo assassinio da parte dei giannizzeri.
Durante il Settecento la potenza militare dell’impero entrò in una crisi irreversibile; ed essa emerse nettamente nel corso delle guerre non solo con l’Austria, ma anche e soprattutto con la Russia che Pietro I il Grande aveva elevato a potenza europea.
Nel 1718 l’impero perse il Banato e la Serbia.
Nel 1774 la Russia prese la Crimea, estendendo la sua influenza sul mar Nero e sui Balcani. Istanbul era sempre meno in grado di controllare le province e in primo luogo l’Egitto e gli stati barbareschi.
L’impero, attaccato da Napoleone nel 1798-1801, venne salvato dal collasso solo dalla vittoria della flotta inglese ad Abukir (1798).
Ma la crisi interna – invano contrastata dal sultano Selim III (1789-1807) – continuava, e nel 1807-1808 i giannizzeri si rivoltarono.
L’Egitto nel 1805 si rese di fatto autonomo sotto il pascià Mehmet Alì.
Un momento di momentanea ripresa fu l’energica azione riformatrice di Mahmud II (1808-1839), che distrusse nel 1826 il corpo dei giannizzeri.
Ma nel 1812 il sultano dovette cedere la Bessarabia alla Russia.

Ormai l’impero, divenuto il “malato d’Europa”, si trovava in una crisi irreversibile, che si sviluppò lentamente ma inesorabilmente per tutto l’Ottocento e l’inizio del Novecento, fino al crollo definitivo nel 1918 (questione d’Oriente).