La flotta perduta di Kubilai Khan


Il discendente dei guerrieri delle steppe Kubilai si era fatto sedurre dalla millenaria cultura cinese, mutando il nome della sua dinastia da Menku in Yuan. Di fronte alle accuse dei suoi generali di essersi sinizzato, perdendo lo spirito combattivo, il Khan si giocò la faccia cercando di soggiogare il Giappone. Pareva un’impresa facile: bastava attraversare un breve tratto d’oceano partendo dalla Corea e piegare gli isolani.
«Ricorsero a giunche fluviali, gestite da marinai cinesi e coreani», spiega l’archeologo napoletano Daniele Petrella,«I mongoli erano combattenti di terra, non dei navigatori». Secondo fonti cinesi successive, Kubilai avrebbe fatto realizzare 4500 navi per trasportare circa 150 mila uomini, per le due spedizioni di conquista che organizzò,una forza di sbarco superiore persino al D-Day in Normandia, che fu di 100 mila uomini (questi numeri sono un’esagerazione tipica delle cronache scritte cinesi; nella specifico, si pensa che ne potessero essere un migliaio ma certamente non 4400).
La navigazione proseguì bene fino in vista della città di Hakata (oggi Fukuoka), quartier generale del governo nel Sud del Giappone. Qui si sarebbero dovuti ricongiungere i due tronconi della flotta, partiti l’uno da Quanzhou, nella Cina meridionale, e l’altro da Happo, in Corea.
Le imbarcazioni erano veloci e sicure, perché i Song, tra i più grandi ingegneri navali della storia, inventarono il sistema degli scafi a paratie, ovvero divisi in stanze a tenuta stagna, vale a dire che se c’era una falla e si imbarcava acqua veniva inondata solo la stiva interessata senza far affondare la nave.
Kubilai e il suo esercito non avevano però fatto i conti con un terribile tifone: il 15 agosto del 1281 la “Corrente Nera” travolge tutte le navi, facendole scomparire per sempre sul fondo dell’oceano e stroncando i sogni di potenza di Kubilai.
Finché Daniele Petrella e Hayashida Kenzo, con un team italo-giapponese di archeologi sub, non riescono finalmente a scovarle.
Il ritrovamento effettuato nei mari di Takashima è relativo alla seconda spedizione di Kubilai, ovvero quella del 1281.
Per quanto riguarda la prima non si ha alcuna evidenza archeologica a sostegno delle fonti scritte cinesi, risalenti a circa 50 anni dopo l’evento, che vogliono anche la prima missione del 1274 fallita a causa dello stesso tifone. 
Si ritiene che la prima spedizione fallì a causa della forte resistenza dei giapponesi che chiusero la flotta mongolo-sino-coreana in una morsa che impedì all’equipaggio di rifornirsi di cibo ed armi, costringendolo alla ritirata. Questo perché, la mancanza di prove archeologiche conferma l’improbabilità che per ben due volte gli esperti marinai cinesi e coreani fossero incappati in un tifone che conoscevano fin troppo bene.
Dal numero delle ancore ritrovate, le navi finora identificate sono 260.
Tra gli altri reperti recuperati, mortai, forni, vasellame, elmi, specchi, perfino un’armatura di cuoio con le giunture di rame, perfettamente conservata in uno scrigno sigillato con il mastice.
Ma il ritrovamento più inatteso è quello dei teppo, bombe da lancio di terracotta riempite con polvere da sparo e schegge di ferro. «Un’arma micidiale», osserva Petrella, «che credevamo fosse stata creata due secoli dopo in Occidente.
Da secoli in Giappone la leggenda raccontava che i mongoli erano stati sbaragliati dal kamikaze, il vento inviato dagli dei per proteggere il suolo nipponico dagli invasori.