L’Influenza Spagnola: la più letale epidemia della Storia dell’Umanità


L’Influenza Spagnola riconfigurò radicalmente la popolazione umana più di ogni altro evento successivo alla peste nera del 1347-’52, che ridusse di un terzo la popolazione del Vecchio continente.
Non partì, come suggerisce il nome, dalla penisola iberica, ma molto probabilmente dal Midwest degli Stati Uniti. Già nel marzo, alla Ford Motor Company più di mille operai contrassero l’influenza, ma la mortalità non fu degna di rilievo.
In aprile e maggio, nel carcere di San Quintino 500 su 1.900 detenuti si ammalarono e, sempre nei primi giorni di marzo, l’influenza arrivò nel Kansas, a Camp Funston, una base di addestramento che ospitava 20.000 reclute.
Quando mancavano ancora un paio di mesi alla fine della Grande Guerra, nel settembre del 1918, la pandemia venne diffusa in Europa soprattutto dal corpo di spedizione statunitense.
I soldati che si ammalavano al fronte venivano ricoverati nelle retrovie, contribuendo a espandere il morbo anche fra i civili.

L’epidemia fu chiamata all’epoca Spagnola per un motivo preciso: la Spagna era immune dalla censura militare, in quanto in Europa era uno dei pochi paesi non coinvolto nel conflitto bellico, pertanto le notizie sanitarie, rispetto all’evoluzione dell’epidemia nel paese iberico, venivano fornite dalla stampa tempestivamente nella cruda e drammatica realtà.
Tale trasparenza, nella diffusione delle informazioni sanitarie, costò alla Spagna la fama di nazione ove l’epidemia era particolarmente virulenta e il titolo immeritato di paese fonte del contagio: cosa che non corrispondeva a verità.
L’influenza spagnola si manifestò in tre ondate. La seconda, che si diffuse a partire da metà agosto del 1918, è quella che causò il maggior numero di vittime.

Si stima che abbia contagiato circa un miliardo di persone, uccidendone tra i 21 e i 25 milioni.
Altri Ricercatori si spingono a 40 milioni di vittime, considerando che le statistiche in continenti come Asia, Africa e il Sud America non erano affidabili e che le condizioni sanitarie generali risultavano particolarmente precarie.
Secondo Edwin Oakes Jordan (Epidemic Influenza 1927) morirono 1.075.685 persone in America settentrionale e centrale, 327.250 in America latina, 2.163.303 persone in Europa, 15.757.363 in Asia, 965.245 in Australia ed Oceania, 1.353.428 in Africa per un totale di 21 milioni 642.274 persone decedute a causa dell’Influenza tra il 1918 ed il 1921.
In Europa il primato spettava alla Russia con 450.000 morti. L’Italia veniva subito dopo, seconda in graduatoria, con 375.000 morti.

In Italia, la pandemia contagiò circa 4 milioni e mezzo di persone, circa il 12% dell’intera popolazione che, all’epoca, contava circa 36 milioni di individui.
Il morbo colpì principalmente al sud, anche se la mortalità variava sensibilmente da città a città, apparentemente senza una regola. A Torino, per esempio, i morti arrivavano a 400 al giorno ma il Capo del gabinetto, Vittorio Emanuele Orlando, aveva imposto una severa censura. Era stato proibito il rintocco funebre delle campane, così come gli annunci mortuari, i cortei e i funerali, per non demoralizzare la nazione.
Al fronte, a metà ottobre, si arrivò a punte di 3000 nuovi casi giornalieri. Nella 1ª armata, nell’ultimo quadrimestre del 1918, si ebbero 32.482 casi di contagio con 2703 morti.
L’influenza spagnola si distinse da altre epidemie influenzali per due caratteristiche in particolare: l’elevata mortalità e il fatto che colpì soprattutto persone tra i 20 e i 40 anni.
La maggior parte dei decessi furono conseguenza di una polmonite batterica. Per combatterla, si applicò il principio di «distanza sociale», per evitare assembramenti di massa.
Scuole, teatri, sale cinematografiche, osterie, mercati e chiese furono temporaneamente chiusi. L’uso di mascherine e disinfettanti fu raccomandato o addirittura imposto dalla legge per frenare il contagio.
La medicina si dimostrava impotente: i dottori morivano contagiati e quelli che sopravvivevano vedevano i pazienti, parenti e amici, morire in massa. Le prime terapie utilizzavano il Fenazone per abbassare la temperatura, la tintura di Noce vomica per stimolare il sistema nervoso ed estratti di Digitalis per il trattamento dello scompenso cardiaco.
Molti medici erano fortemente contrari all’uso dell’aspirina, di recente invenzione che, pur abbassando la febbre, era accusata di favorire complicazioni polmonari e cardiache. Un medico di allora annotava: «Iniettarono una broda composta di sangue e muco degli influenzati, filtrata per eliminare le cellule più grandi e i detriti» ma questo non faceva che aggravare la situazione.
Poi la fantasia di medici e farmacisti si sbizzarrì: un medico francese consigliava ai malati di bere molto vino rosso sino a che il berretto appeso al pomello della porta non fosse apparso sdoppiato. Lo scrittore veneziano Tito Spagnol fu caustico circa le cure in voga: «Quattro pastiglie di chinino e un po’ di paglia per morirvi sopra».
La “spagnola” scomparve improvvisamente verso la fine del 1920, forse per una mutazione del virus o per effetto di cure più efficaci.